Ammettiamo fin da subito che questa sarà una recensione complicata perché, nonostante l’affezione per Arrow, Life Sentence ha – se possibile – contribuito ad affondare il così detto ultimo chiodo sul coperchio della bara di una stagione che ha lasciato troppo a desiderare e che non ha fatto molto per correggere la discutibile direzione impartita dagli autori e che ha provocato diverse critiche circa l’andamento narrativo dello show.
La prima questione che vogliamo affrontare con la conclusione della stagione, è quella del ritorno di Ricardo Diaz anche il prossimo anno. Con tutto il rispetto che Kirk Acevedo il quale, non ci stancheremo mai di ripeterlo, ha fatto il meglio che poteva con quello che gli è stato dato a disposizione, la sola idea che tra tutti i nemici che Green Arrow ha affrontato nel tempo, si sia scelto proprio di usare The Dragon per un arco narrativo che coprisse due stagioni, è quanto meno scoraggiante.
Come abbiamo già sottolineato gli autori non sono riusciti nell’intento di fare di Diaz un cattivo accattivante ed il suo exploit nel finale non ha contribuito a farci cambiare opinione, ma si è limitato a mostrarci un uomo che ha sostanzialmente cercato di arrampicarsi inutilmente sugli specchi, ponendo rimedi inefficaci ad un problema rispetto al quale non aveva evidentemente più il controllo.
Il suo continuo gridare “Voglio la mia città,” come fosse un bambino che ha perso il giocattolo preferito, ha più che altro contribuito a macchiare ulteriormente la sua reputazione di credibile nemesi per il nostro eroe.
E sempre a proposito di credibilità, viene spontaneo domandarsi come un uomo apparentemente intelligente come Diaz, possa aver pensato anche solo per un minuto che una semplice telefonata da parte del sindaco sarebbe stata sufficiente a liberarsi della presenza dell’FBI, come se Samandra Watson avesse potuto lasciarsi convincere dalle parole di un uomo che sapeva essere probabilmente sotto ricatto.
Nulla del piano del Dragone dimostra di avere senso: dopo essersi liberato dei membri di The Quadrant e aver nominato invano un’alleanza con i The Longbow Hunters, che vedremo sicuramente spuntare il prossimo anno, la sola idea di incrociare il cammino con questo personaggio, fosse anche solo per una parte della prossima stagione, non ci arride particolarmente.
Nonostante la nostra opinione su The Dragon non sia quindi delle migliori, bisogna ammettere che Life Sentence è stato comunque teatro di una scena decisamente commovente.
Esiste un sottile confine tra capacità attoriali e coinvolgimento personale e, a giudicare da ciò che abbiamo visto l’addio tra Quentin Lance ed Oliver Queen è un perfetto esempio di come non sia sempre facile, nemmeno per professionisti allenati a farlo, tenere sotto controllo le proprie emozioni. La commozione di Stephen Amell nella scena in cui ringrazia Quentin per essere stato per lui una figura paterna ed un esempio da seguire, è così tangibile e reale da farci sospettare che fosse autentica e che l’attore abbia incanalato, nel miglior modo possibile, reali sentimenti nei confronti di Paul Blackthorne riuscendo magistralmente ad usarle in favore di camera e facendoci sentire tutto il peso di parole che si sarebbero poi rivelate dolorosamente definitive.
Per quanto ci concerne siamo combattuti dall’uscita di scena di Blackthorne da Arrow, che indica a nostro avviso la fine di un’era. Il personaggio di Quentin Lance, nonostante i suoi molti difetti, i suoi problemi con il bere ed il suo rapporto con le figlie, ha sempre segnato una sorta di spartiacque tra lui ed il resto del cast, come se la sua presenza abbia sempre permesso agli altri personaggi di indulgere nell’idea di non essere ancora degli adulti pienamente formati, pur essendosi sposati o avendo messo su famiglia per proprio conto, rendendo la sua morte un evidente segno del tempo che scorre inesorabile, pur essendo comunque dovuta.
La realtà è che probabilmente non vi era nemmeno più spazio per l’ennesima tragedia in questa sfortunata famiglia, che tra morti e resurrezioni, ha vissuto in un costante stato di lutto, incastrata in una trama che ha sostanzialmente continuato a ripetersi stagione dopo stagione. A livello professionale, non ci stupirebbe che la decisione di lasciare fosse partita proprio da Blackthorne il quale, nonostante la monotonia delle storyline che gli sono state dedicate, è riuscito comunque nel difficile compito di farci affezionare al suo personaggio, rendendo comunque doloroso il distacco.
Non possiamo essere invece altrettanto generosi con l’apparizione di Sara (Caity Lotz) come guest star dell’episodio la quale, al di là del suo incontro con la dopplegänger di sua sorella, che vedeva per la prima volta, non ha avuto nemmeno l’opportunità di dire addio al padre. E’ possibile che si sia scelto di non mettere in ombra il momento tra Amell e Blackthorne sminuendolo con un’altra toccante scena d’addio, ma è anche vero che scomodare la Lotz per qualche fotogramma ci è sembrato per lo più uno spreco.
Sentimenti altrettanto contrastanti li abbiamo nei confronti di Black Siren.
Sebbene nell’episodio non ci sia stata una vera e propria redenzione del personaggio, il che probabilmente è un bene, è evidente come Quentin fosse comunque riuscito a fare breccia nel suo cuore, il che rende forse persino più inspiegabile il motivo per cui, invece di permettere a Green Arrow di sbarazzarsi di Diaz per sempre, la Laurel di Terra-2 abbia deciso di salvare la vita a The Dragon.
Era per evitare che Oliver lo uccidesse, privandola della sua vendetta personale? Ma in quel caso non avrebbe potuto semplicemente mettere temporaneamente fuori gioco Green Arrow e uccidere Diaz seduta stante? La risposta più ovvia, chiaramente, è no. Non quando gli autori hanno la necessità di far tornare il personaggio nella stagione successiva.
Ultimo, ma non ultimo, abbiamo infine il piano di Oliver Queen ed il suo patto con l’agente Watson. Al di là delle ripercussioni (che speriamo essere positive per il prossimo anno), nella scelta del sindaco di incriminarsi e farsi arrestare dall’FBI confessando di essere Green Arrow al fine di ottener l’aiuto dei federali per riconquistare la propria città e strapparla dalle mani di Diaz, riscontriamo invece la parte più debole di tutta la stagione e cioè quella che fa basare la scelta del protagonista su un incomprensibile senso di colpa scatenato dai suoi stessi alleati, nonché su un desiderio di auto-flagellazione o forse riscatto per non essere riuscito a diventare il leader che avrebbe sperato, facendogli così ammettere di essere stato sempre in torto nei confronti di Dinah, Curtis, Rene e Diggle e di aver cercato in questo accordo una forma di espiazione.
Ancora una volta troviamo che questa trama stia stata affrontata dagli autori con un una certa superficialità o, peggio ancora, dimenticando quasi la storia pregressa del personaggio.
La questione morale, la difficoltà di prendere decisioni scomode in momenti di crisi, la scelta di uccidere quando avrebbe potuto evitarlo, la complessità di scegliere tra moralmente giusto e sbagliato, sono sempre stati temi importanti per lo show e per la crescita personale del protagonista, ma – nel complesso – avrebbe avuto più senso vedere Oliver affrontare una lotta interiore a causa di un rigurgito di senso di colpa per il passato, piuttosto che per accuse mosse dalle persone che avrebbero dovuto essergli più vicine. Il problema vero, in sostanza, non è tanto che Oliver Queen finisca in prigione, ma che lo faccia convinto di dover pagare per i motivi sbagliati.
Come per tutta l’annosa questione della lotta intestina tra i due Team non ci è mai stata davvero data una spiegazione razionale (o sensata), allo stesso modo, giunti alla fine della stagione, non riusciamo a capire cosa sia davvero cambiato tra Oliver, Dinah, Curtis e Rene e perché improvvisamente i problemi tra loro si siano appianati.
La città correva un grave pericolo anche quando i due gruppi hanno cominciato a discutere e si sono separati, più volte hanno dimostrato tutti di avere un’evidente mancanza di fiducia reciproca. Perché dovremmo quindi improvvisamente credere alle parole di Dinah che dice a Oliver di averlo sempre rispettato o all’atteggiamento contrito del protagonista?
Perché dovrebbe essere accettabile il fatto che Oliver, in quanto marito e padre, prenda una decisione di tali proporzioni come quella di sacrificare la propria libertà, senza condividere la scelta con Felicity che si ritrova così da sola, unica responsabile del figlio di Oliver?
Non era forse stata proprio l’abitudine di quest’ultimo a mantenere i segreti con la sua fidanzata, la ragione della rottura del loro fidanzamento? Perché dovrebbe essere meno difficile accettare per una moglie che il proprio marito stia sacrificando anche la sua vita senza interpellata?
Potendo separare le scelte autoriali dalle interpretazioni degli attori, ammettiamo che nonostante tutti i dubbi che abbiamo nei confronti di questa stagione, l’interpretazione di Stephen Amell in questo finale di stagione è stata particolarmente riuscita e sentita. Non capito spesso di vedere un Oliver Queen così silenzioso, lacerato ed intimista, ma sicuramente l’attore ha saputo giocare bene con il conflitto interiore provato dal suo personaggio, a prescindere dalla sensatezza della trama.
Inutile dire che ci sarebbe piaciuto chiudere questa recensione con una nota più positiva, ma al di là della scena tra Oliver e Quentin che abbiamo già menzionato e dello scontro piuttosto spettacolare sotto la pioggia tra Green Arrow e Diaz, girato in parte in slow motion, rimaniamo purtroppo dell’opinione che questa sesta stagione e questo finale di Arrow siano, nel complesso, deludenti, per la maggior parte a causa di un inspiegabile lassismo ed una certa disattenzione da parte degli autori che, ci auguriamo, il prossimo anno – sotto la guida della nuova showrunner – diventino solo un brutto ricordo.
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